Nella valutazione della legittimità del licenziamento, il giudice deve tener conto della proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta addebitata al lavoratore. Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7118/17 depositata il 20 marzo.
Il caso. Una lavoratrice otteneva dalla Corte d’appello di Ancona la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole per aver apostrofato con parole ingiuriose il proprio superiore e respingeva la domanda dirisarcimento danni relativa al demansionamento e mobbing subiti.
Il disagio della lavoratrice e le ingiurie. Avverso tale pronuncia ricorreva la società, lamentando la mancanza di motivazione e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Secondo la ricorrente, infatti, la Corte territoriale avrebbe errato nel qualificare il licenziamento intimato alla lavoratrice in termini di recesso per giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Secondariamente, il giudice non avrebbe tenuto conto dei provvedimenti disciplinari adottati, in sede di valutazione della ricorrenza del giustificato motivo. Secondo la Corte di Cassazione, però, a determinare la declaratoria di illegittimità del licenziamento non è stata un’errata interpretazione dei fatti, come sostenuto dalla ricorrente, «bensì l’esito negativo del giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata».
Nel caso di specie, è evidente che la lavoratrice vertesse in una «palese condizione di disagio», seppure magari «a comprova di una lettura della propria vicenda lavorativa in chiave vittimistica e rivendicativa». Ma quella condizione, pur se non imputabile al datore di lavoro, «fa sì che il fatto addebitato sia di essa una mera manifestazione, priva di autonoma rilevanza e sprovvista di importanza e gravità tali da giustificare la risoluzione del rapporto». Per questi motivi la Corte rigetta il ricorso. (Corte di Cassazione – sezione Lavoro – sentenza n. 7118 del 20 marzo 2017)