Postina in malattia, beccata a fare la cameriera: niente licenziamento.
Accertata la condotta irregolare tenuta dalla donna. Ciò nonostante, i Giudici ritengono eccessivamente drastico il provvedimento adottato dall’azienda, non essendo la condotta della postina idonea a ledere il vincolo fiduciario con la società. Costretta a casa, in malattia, per i postumi di un piccolo intervento chirurgico. La donna, dipendente di Poste Italiane, viene però beccata a lavorare per tre giorni come cameriera in una trattoria. Evidente l’irregolarità compiuta, ma essa non è sufficiente, secondo i Giudici, per giustificarne il licenziamento (Cassazione, sentenza n. 12902, sez. Lavoro, depositata il 23 maggio 2017).
Malattia. Decisivo il passaggio in appello, dove viene ordinata la reintegra della lavoratrice, dipendente di Poste Italiane e inquadrata come «portalettere». Per i giudici la condotta tenuta dalla donna è certa, ma può essere punita con «misure sanzionatorie di carattere conservativo», non certo col «licenziamento». In sostanza, è stato accertato che la lavoratrice, pur risultando «assente per malattia» dopo un intervento chirurgico, è stata beccata a fare «la cameriera ai tavoli di una trattoria» per ben tre giorni, ma ciò, secondo i giudici, non ha «scosso irrimediabilmente il rapporto fiduciario» con l’azienda.
Scorrettezza. Di parere completamente opposto, ovviamente, i legali di Poste Italiane, che in Cassazione sottolineano la gravità della scorrettezza compiuta dalla lavoratrice, tale, a loro avviso, da poter pregiudicare il recupero lavorativo e da ledere il vincolo società-dipendente. In questa ottica viene richiamato il fatto che la donna «avrebbe potuto lavorare come portalettere, invece di assentarsi per malattia ed andare a fare la cameriera, col rischio di pregiudicare la guarigione ed arrecare un danno all’azienda».
Queste obiezioni vengono però respinte dai magistrati del Palazzaccio, che mostrano di condividere la visione tracciata in appello. In parole povere, il comportamento della lavoratrice non è ritenuto davvero grave, poiché esso «ha avuto ad oggetto solo due ore per tre giornate, in coincidenza con l’approssimarsi della ripresa dell’attività lavorativa», con l’aggiunta poi che «la prognosi del periodo di malattia inizialmente diagnosticato non era stata procrastinata in conseguenza dell’attività prestata in trattoria».
Per chiudere il cerchio, infine, viene anche richiamata la «lettera di giustificazioni» presentata dalla donna: da quelle righe è emerso, secondo i giudici, che ella non era consapevole della «contrarietà agli interessi dell’azienda» della condotta a lei contestata.
Tutti questi elementi, concludono i magistrati, portano ad escludere che la scorrettezza di cui si è resa protagonista la donna sia sufficiente per arrivare addirittura al licenziamento. (Corte di Cassazione – sezione Lavoro – sentenza n. 12902 del 23 maggio 2017)