Il tribunale del lavoro di Roma, infatti, con un’ordinanza del 26 luglio , ha ritenuto che gli articoli 2 , 4 , 10 del decreto legislativo 23/2015 e l’articolo 1, comma 7 della legge delega 183/2014 possano essere in contrasto con gli articoli 3, 4, 76 e 117 della Costituzione .
La decisione trae origine dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a una lavoratrice, difesa dall’avvocato Carlo de Marchis, espulsa dall’azienda a dicembre 2015 a sette mesi di distanza dall’assunzione. Poiché il rapporto di lavoro si è instaurato dopo il 7 marzo 2015, si applicano le tutele crescenti previste per gli assunti da tale data.
Nel caso specifico, rileva il giudice, la decisione dell’azienda si basa su una motivazione estremamente generica e non provata. Quindi ci si trova di fronte alla «non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo…ovvero la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
In questa ipotesi, secondo il Dlgs 23/2015, la lavoratrice non ha diritto alla reintegrazione ma solo a un risarcimento commisurato all’anzianità aziendale. Il punto centrale, osserva il giudice, non è l’eliminazione della tutela reintegratoria, se non per i licenziamenti nulli, discriminatori e alcuni casi disciplinari. La Corte costituzionale, infatti, ha già stabilito che la tutela può essere garantita anche in altri modi.
Il problema sta proprio nella«disciplina concreta dell’indennità risarcitoria che…avrebbe dovuto essere ben più consistente ed adeguata». Dal fatto che le indennità fissate per legge siano di importo ridotto, secondo il giudice, ne consegue che:
• le stesse non hanno carattere compensativo per il lavoratore né dissuasivo per le aziende;
• si determinano conseguenze discriminatorie perché un’azienda tenderà a licenziare i dipendenti soggetti alle tutele crescenti e non quelli a cui si applica la più “protettiva” e onerosa normativa precedente;
• si elimina la discrezionalità valutativa del giudice e si disciplina in modo uniforme casi molto diversi.
Per questi motivi il contratto a tutele crescenti può essere in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione (uguaglianza dei cittadini).
Inoltre, secondo gli articoli 4 e 35 della carta costituzionale, la Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro e tutela il lavoro stesso in tutte le sue forme e applicazioni. Ma il Dlgs 23/2015 non sembra in linea con tali principi dato che valuta il diritto al lavoro con «una quantificazione tanto modesta ed evanescente», e anzi quasi ripristina di fatto la libertà assoluta di licenziamento.
Infine la legge delega 183/2014 prevede la coerenza delle disposizioni nazionali con «la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali». Ma tale conformità non appare rispettata nei confronti dell’articolo 30 della Carta di Nizza, della Convenzione Ilo 158/1982, dell’articolo 24 della Carta sociale europea.
Per questi motivi il giudice ha sospeso il giudizio e rimesso gli atti alla Corte costituzionale. (Tribunale di Roma – sezione Lavoro – ordinanza del 26 luglio 2017)
L’ordinanza del tribunale di Roma che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del Dlgs 23/2015 – il decreto attuativo del Jobs act sulle tutele crescenti fonda la presunta incostituzionalità delle tutele crescenti sulla misura risarcitoria. La tutela risarcitoria, al posto della reintegrazione che non è richiesta né dalla Costituzione né da leggi europee, risulterebbe «modesta ed evanescente» rispetto al regime preesistente. Anche se questa critica viene ancorata al concetto di adeguatezza – proprio delle fonti del diritto internazionale e comunitario – manca l’indicazione, anche embrionale, di quale soglia minima avrebbe dovuto rispettare il legislatore per definire un risarcimento “adeguato”; la censura si risolve, di fatto, nella semplice richiesta di ritorno alla normativa precedente.
L’ordinanza ipotizza anche la violazione del principio di eguaglianza, poiché la misura fissa del risarcimento, sottratta alla discrezionalità del giudice, finirebbe per garantire tutela identica a situazioni molto distanti nella sostanza. Questa critica pare molto debole, in quanto – come già la normativa precedente – il Dlgs 23/2015 distingue i vizi del licenziamento in alcune grandi categorie (discriminatorio, invalido, nullo, affetto da vizi formali), e per ciascuna prevede un regime sanzionatorio specifico e differenziato.
Il principio di eguaglianza sarebbe violato, inoltre, dalla previsione di regole diverse per vecchi e nuovi assunti. Questa critica non tiene conto della massima, elaborata dalla Corte costituzionale (e richiamata, ma ignorata, dalla stessa ordinanza), secondo la quale «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche».
Ancora meno convincente è l’obiezione secondo cui le tutele crescenti avrebbero acuito la distanza tra dirigenti e non dirigenti: la diversità di regime giuridico tra dirigenti e dipendenti giustifica ampiamente la differenze di tutele (come accade per imprese che superano oppure no la soglia dei 15 dipendenti, e per molte altre fattispecie).
L’ordinanza ipotizza, inoltre, un possibile contrasto con l’articolo 4 della Costituzione, nella parte in cui sancisce il diritto al lavoro. Secondo il giudice, la tutela prevista dal regime delle tutele crescenti equivarrebbe, di fatto, all’affermazione della libertà di licenziamento e a una rottura del principio di uguaglianza e solidarietà sui luoghi di lavoro. Questa critica si risolve in un giudizio personale, legittimo ma insufficiente a motivare una pronuncia di incostituzionalità, che dovrebbe ancorarsi ad argomenti più solidi e oggettivi.