Non sempre l’installazione e l’utilizzo di diversi s istemi applicativi software da parte delle imprese che svolgono attività di call center effettuano anche il controllo a distanza degli operatori, ma non sempre, altri ne giustificano invece il legittimo utilizzo.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (Inl) con la circolare n. 4/2017 del 26 luglio scorso procede ad analizzare alcune realtà e ne indica le linee operative.
Un primo esame si sofferma, ad esempio, sull’utilizzo del sistema di gestione integrato e multicanale Customer relationship management (CRM) , in relazione al quale la verifica di cui alla circolare dell’Inl in esame è finalizzata a individuare se nei confronti di tali sistemi ricorra l’esimente di cui al comma 2, dell’ 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori) allorché stabilisce che gli impianti e le e gli altri strumenti dai quali possa derivare il controllo a distanza dei lavoratori devono essere oggetto di accordo sindacale e, in difetto, di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro competente per territorio, non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
Trattasi di un “alleggerimento” della più rigorosa disposizione originaria introdotto dall’art. 23 de D.Lgs 14 settembre 2015, n. 151 e dall’art. 5 del D.Lgs. 24 settembre 2016, n. 185.
Il sistema in questione, secondo l’approfondita analisi fatta dall’ INL con la circolare in esame, consente di “archiviare” le abitudini del cliente mediante la costituzione di una data base di informazioni di facile e rapida consultazione necessaria per gestire i rapporti con i clienti.
La possibilità di associare automaticamente al numero del cliente che effettua la chiamata tutti i dati anagrafici di quest’ultimo e, soprattutto, quelli di natura contrattuale già in essere con il gestore, rende senz’altro più completa l’informazione anche ai fini di una più efficiente relazione tra operatore e cliente.
La raccolta, l’analisi e la sistemazione informatica dei dati, al contrario di quella cartacea, permette di avere in tempo reale tutti i dati che consentono poi di evadere, altrettanto rapidamente, le richieste avanzate.
Del resto, l’informatizzazione dei vari dati permette di avere traccia di tutti i contatti e di tutte le richieste avanzate dal cliente e le sue relative e personali esigenze, il che potrebbe essere senz’altro difficoltoso se collegato ad una ricerca manuale.
Tutto porta alla conclusione che l’installazione e l’utilizzazione degli strumenti di supporto all’attività operativa dei call-center mediante il cosiddetto C.R.M. possa essere considerato uno strumento che serve al lavoratore per “rendere la prestazione lavorativa ”, senza ricorrere, come previsto dal citato comma 2 dell’art. 4 dello Statuto, al previo accordo sindacale ed, in difetto, all’autorizzazione dell’Ispettorato.
Ben diverso è il discorso da farsi in merito ai software che raccolgono ed elaborano in tempo “quasi reale” i dati relativi agli stati di attività telefonica di ciascun operatore, alle varie fasi riferite,quali, per esempio, alla posizione di “libero”, non disponibile”, in “pausa”, ecc., nonché ai tempi medi di evasione delle diverse lavorazioni o chiamate.
Accanto a questi operano, altresì, altri sistemi informatici i quali quantificano la produttività giornaliera , il tempo dedicato per ciascuna commessa, nonché le pause effettuate da ogni singolo lavoratore.
In tali casi, a parte la presenza di generiche ed eventuali esigenze produttive, questi ultimi sistemi consentono anche di realizzare un “monitoraggio” individualizzato su tutti gli operatori, realizzando così anche un controllo minuzioso su tutta l’attività del singolo lavoratore, privando quest’ultimo di un qualunque spazio-temporale nel quale il lavoratore possa considerarsi non osservato o seguito per l’intero svolgimento della propria attività.
Trattasi di una circostanza che contrasta con la disposizione del comma 1, dell’art. 4 dello Statuto il quale consente l’installazione e l’utilizzo degli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Deve trattarsi, pertanto, secondo il legislatore, di un controllo eventuale, incidentale e limitato nel tempo ma non continuo come alcuni sistemi riferibili a quelli descritti provocherebbero, cioè in modo costante, indiscriminato ed invasivo.
In tale ultima ipotesi, conclude la circolare in esame, non emergono con certezza le esigenze che giustificano la assoluta indispensabilità di tali sistemi, per cui appare difficile consentire la inevitabile limitazione della libertà e della dignità dei lavoratori alle seppure prioritarie ragioni produttive, tali che non giustificherebbero il rilascio di alcun provvedimento autorizzativo da parte dell’Ispettorato.
La recente presa di posizione dell’Ispettorato nazionale del lavoro sui software gestionali utilizzati nei call center è solo l’ultima manifestazione di una tendenza a interpretare restrittivamente (con uno sguardo nostalgicamente rivolto al passato) la nuova norma sui controlli a distanza introdotta dal Jobs act.
Alla base di tale tendenza sta probabilmente la convinzione che solo la preventiva autorizzazione amministrativa o sindacale degli strumenti che consentono un controllo a distanza sia idonea a tutelare appieno la libertà e la dignità dei lavoratori. Si spiega così l’interpretazione restrittiva della definizione di strumento di lavoro, in termini di stretta “indispensabilità” per lo svolgimento della prestazione lavorativa, che ha l’effetto di allargare l’area degli impianti soggetti ad autorizzazione. Non solo. Traspare, altresì, tanto dalla circolare quanto dagli stessi modelli di richiesta di autorizzazione pubblicati sul sito dell’Ispettorato, la tendenza ad ampliare gli spazi di discrezionalità nella concessione o meno dell’autorizzazione, sino ad entrare nel merito del bilanciamento tra esigenze produttive e tutela dei lavoratori, dettando anche le modalità d’uso degli strumenti, nonostante l’eliminazione nella nuova norma del relativo inciso.
Così facendo, però, si limita fortemente la portata innovativa della riforma. Quest’ultima, infatti, ha voluto valorizzare, ai fini della tutela del lavoratore, l’informativa sulle modalità di effettuazione dei controlli e il rispetto dei principi privacy, piuttosto che la preventiva autorizzazione sindacale o amministrativa. Il che è coerente con la normativa e le prassi europee, che si muovono nell’ottica (non già dell’autorizzazione preventiva bensì) della responsabilizzazione del titolare del trattamento dei dati, che, nel nostro caso, è il datore di lavoro.
Ciò è particolarmente evidente nel nuovo Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali, che entrerà in vigore in tutta la Ue il 25 maggio 2018, sostituendo le normative nazionali. In previsione del debutto del nuovo testo normativo, i Garanti europei della privacy, riuniti nel gruppo di lavoro denominato WP29 (Working party 29, dall’articolo della direttiva europea sulla privacy che l’ha istituito), hanno adottato l’8 giugno scorso un documento che fornisce un quadro dei principi applicabili al trattamento dei dati e quindi ai controlli sui lavoratori, alla luce delle nuove tecnologie applicate nei luoghi di lavoro.
Si tratta di un documento che analizza dettagliatamente una serie di strumenti tecnologici aziendali (Gps, social media, sistemi di controllo delle comunicazioni aziendali, strumenti utilizzati da chi lavora da remoto, Mdm-mobile device management, sistemi di controllo degli accessi a particolari aree, eccetera) dai quali può derivare il rischio di controlli potenzialmente troppo invasivi. Per ciascuno di essi vengono fornite indicazioni e raccomandazioni, nell’ottica del bilanciamento di interessi tra esigenze del datore di lavoro e privacy del lavoratore.
Il principio fondamentale resta quello della trasparenza, ovvero, per usare l’espressione contenuta nel nuovo articolo 4 dello statuto dei lavoratori, della adeguata informazione dei lavoratori sulla effettuazione dei controlli, vale a dire della necessità, per il datore di lavoro, di adoperarsi per la redazione di policy adeguate, facilmente comprensibili e accessibili. E poi il rispetto del principio di proporzionalità del trattamento alla legittima finalità perseguita, centrale nella normativa privacy, che deve ispirare l’adozione di misure volte alla mitigazione dei rischi di compressione della libertà e della privacy dei lavoratori.
In un sistema così congegnato, verifiche e controlli sono necessariamente effettuati “ex post”, dal giudice o dalle autorità di controllo. In quest’ottica, voler a tutti i costi difendere e anzi allargare il perimetro dell’autorizzazione preventiva sembra davvero una battaglia di retroguardia.